lunedì 3 dicembre 2012

Lacrime di coccodrillo

Ad un anno dall'entrata in vigore della Riforma delle pensioni che porta il nome della ministra Fornero, credo si possa dire che non sia stata compresa appieno la portata drammatica che questa avrà sulla vita delle persone. A parte la questione dei c.d. "esodati", di cui molto si è parlato, il resto della riforma non è stato particolarmente approfondito, altrimenti ci sarebbero state le barricate in piazza e i sindacati avrebbero fatto ricorso, come in passato, all'arma dello sciopero generale. O forse no. Forse siamo stanchi e disillusi, convinti che, alla fine, lor signori ce lo metteranno sempre in quel posto.
Prima del 6 dicembre 2011, data di emanazione del d.l. 201, si poteva andare in pensione in due modi: o con la vecchiaia (65/60 anni di età se uomini o donne e almeno 20 anni di contributi) o con la pensione di anzianità (al perfezionamento di requisiti di età, contributi, più la c.d. "quota", oppure con 40 anni di contributi, indipendentemente dall'età). Una volta perfezionati i requisiti, bisognava attendere la "finestra d'uscita", che il governo Berlusconi, con la legge 122 del 2010, aveva reso "mobile": per avere il pagamento della pensione, bisognava aspettare 12 mesi se si aveva tutta contribuzione da lavoratore dipendente, 18 mesi se da lavoratore autonomo.
La Riforma Fornero ha semplificato le cose, eliminando il sistema delle "finestre", ma inasprendo i requisiti e introducendo una "clausola capestro" che renderà la pensione un miraggio per tanti: l'adeguamento all'incremento della speranza di vita. Due restano i trattamenti pensionistici: la pensione di vecchiaia e la pensione anticipata.
Fermo restando il requisito dei 20 anni di contributi, la prima introduce novità soprattutto per le lavoratrici del settore privato, che vedono allontanarsi l'età della pensione, fino ad eguagliare, a partire dal 2018, il requisito anagrafico già oggi richiesto agli uomini e alle donne del settore pubblico: 66 anni.  Le più colpite sono le donne del 1952, che col vecchio sistema avrebbero maturato il diritto a pensione quest'anno e che, invece, vedono allontanarsi inesorabilmente il traguardo. Forse mosso a compassione, il Governo ha cercato di rimediare introducendo, per questa categoria di lavoratrici, una "clausola eccezionale". In sostanza, le donne che fanno 60 anni entro il 2012 e hanno 20 anni di contributi, potranno andare in pensione a 64 anni, anziché a 66. Ma non tutte: solo quelle che, al 28 dicembre 2011, svolgevano un'attività di lavoro dipendente nel settore privato. Niente da fare per le lavoratrici autonome e niente da fare per quelle che, maturati i 20 anni di contributi, avevano lasciato il lavoro per dedicarsi alla famiglia o a se stesse, in attesa di compiere 60 anni. 
Si ha diritto alla pensione anticipata una volta maturati almeno 41 anni di contributi per le donne e 42 anni per gli uomini (contro i precedenti 40), a prescindere dall'età anagrafica. Chi, però, matura il diritto  e decide di andare in pensione prima dei 62 anni, si vede decurtata la pensione di un 1%, se ha un'età compresa tra 60 e 62 anni; di un 2% se di età inferiore a 60 anni. Questo significa che un Tizio che va in pensione a 58 anni con 4 anni di anticipo rispetto ai 62, vedrebbe la sua pensione decurtata del 6%. Mica male. E questa decurtazione se la porterà dietro per tutta la vita. Anche questo è stato studiato come un incentivo a lavorare di più. Una delle tante astuzie o specchietti per le allodole di cui è disseminata la Riforma, è stata introdotta col decreto Milleproroghe. In questo, si dice che evita la penalizzazione chi va in pensione anticipata entro il 31 dicembre 2017, prima dei 62 anni, a condizione che i contributi derivino da effettiva prestazione lavorativa. Se, invece, nella posizione contributiva ci sono, tra gli altri, periodi di disoccupazione, il beneficio salta. E in un epoca in cui si va sempre più verso la precarizzazione del lavoro, con periodi di occupazione alternati ad altri di disoccupazione, è evidente come si tratti di una norma che avrà ben scarsa applicazione.
Ma il vero grimaldello utilizzato dal legislatore per renderci veri e propri schiavi, è l'introduzione dell'adeguamento all'incremento della speranza di vita. Questo criterio (già in parte portato dal Governo Berlusconi con le leggi 111 e 148 del 2011, ma in maniera più soft) è stato utilizzato come una clava dal Governo Monti e si applica ai requisiti anagrafici di tutti i trattamenti pensionistici (compreso, tra gli altri l'assegno sociale) e ai requisiti contributivi della pensione anticipata. Il primo adeguamento alla speranza di vita (3 mesi) scatterà il 1 gennaio 2013. Questo significa, ad esempio, che un uomo che lavora nel privato andrà in pensione di vecchiaia a 66 anni e 3 mesi; o che una donna andrà in pensione anticipata a 41 e 5 mesi (2 mesi li aveva già gentilmente concessi Berlusconi). Gli adeguamenti avranno cadenza triennale fino al 2019 e diventeranno biennali dal 2021. Un sistema come questo rende praticamente irraggiungibile la pensione e ci condanna a morire sul lavoro.
Particolarmente odioso, poi, è il trattamento riservato agli assicurati dopo il 1 gennaio del 1996, ai quali si applica un sistema contributivo puro. A questi, ai fini del diritto alla pensione di vecchiaia, oltre all'età e ai 20 anni di contributi, si chiede anche un importo della pensione non inferiore a 1,5 volte l'assegno sociale. Per il 2012 l'importo sarebbe di 643,50 euro e, ovviamente, crescerà nei prossimi anni. Una soglia irraggiungibile per tanti che col sistema contributivo si troveranno pensioni da fame.
Una Riforma come questa, che incide a fondo sulla carne viva del Paese, è stata fatta sotto la scure dello spread, per rassicurare i mercati. Ed è piuttosto discutibile che per rassicurare un'entità astratta come i mercati, si vada a rovinare in questo modo la vita delle persone. Ed è stata fatta in fretta e furia, senza calcolare bene le conseguenze. Il balletto di numeri sugli "esodati" (prima 65 mila, poi 120 mila, poi 390 mila e poi chissà) al riguardo è eloquente.
La ratio che ha guidato il legislatore è stata perseguire il massimo risparmio sulla spesa previdenziale, scaricando sulle imprese il costo di lavoratori vecchi e improduttivi. Si sa, infatti, che il lavoratore anziano produce meno, perché meno motivato, e costa di più alle aziende, che fino ad oggi usavano la leva degli ammortizzatori sociali (in particolare la cassa integrazione e la mobilità) per accompagnarne l'uscita pensionistica. Oggi, con la riforma degli ammortizzatori sociali che partirà dal 2013, la mobilità andrà scomparendo e saranno sempre più difficili gli incentivi all'esodo per i lavoratori, visto che la prospettiva della pensione si allontanerà sempre di più.  
E' uno scenario nuovo e imprevedibile quello che si apre. L'unica cosa certa è che bisognerà trovare il modo di reinventarsi la propria vita. Pensare di dover lavorare fino a settant'anni e oltre è impossibile, c'è da impazzire.




  


domenica 2 dicembre 2012

Inchiesta "Tutte le Ilva d'Italia"

Un'inchiesta di Repubblica su i tanti siti industriali in Italia che hanno creato e creano tutt'oggi danni alla salute pubblica e all'ambiente. Uno squarcio su come negli anni del boom economico sia stata concepita la via italiana allo sviluppo. Leggi qui.

sabato 15 settembre 2012

Appunti lusitani

Rimetto ordine negli appunti del viaggio in Portogallo appena finito. Non ho la presunzione di aver capito l'anima di un popolo in una settimana. Per far questo bisognerebbe mettere radici. 




Protesta a Lisbona davanti al Parlamento
Dalle brevi impressioni riunite nel mio taccuino, emergono immagini in ordine sparso. La splendida decadenza di Lisbona e la grandiosa solennità del Convento di Cristo che sovrasta Tomar, rappresentazione plastica del potere che l'Ordine dei Templari esercitò in Portogallo per sette secoli. L'odore di pesce fresco nelle calli di Oporto e quello dei libri antichi nella Biblioteca Joanina dell'Università di Coimbra. Grandi autostrade che tagliano a metà un paesaggio ondulato, ricoperto di foreste come ne ho viste solo in Germania e Danimarca, e nuvole nere di incendi che oscurano il sole e seccano la gola. Tramonti sull'oceano atlantico e ville Liberty dai meravigliosi giardini esotici. Il tram 28 che sferraglia arrampicandosi lungo le strette vie di Lisbona.
Il Portogallo, terra più occidentale d'Europa, oggi ne è il parente povero. Impero divenuto periferia; terra dalla bellezza languida e sensuale; fatalismo di un popolo atlantico, ma nelle cui vene scorre sangue mediterraneo.
Democrazia giovane e instabile, oggi fa parte di quel gruppo di nazioni che i tecnocrati dell'Europa anglosassone hanno definito Pigs, maiali, e a cui stanno imponendo condizioni di vita durissime. Nelle prime pagine dei quotidiani portoghesi di questi giorni, campeggiavano le ultime, insopportabili, richieste della Troika composta da FMI, Commissione Europea e BCE: riduzione dei salari e settimana lavorativa di sei giorni come per la Grecia. In pratica, la schiavitù legalizzata. 
Comincio a pensare che questa crisi altro non sia che una vendetta dei tecnocrati, desiderosi di uniformare al proprio triste e grigio stile di vita, fatto di rigore e ascetismo razionale, le popolazioni dell'Europa del sud. Come se fossero invidiosi della dolcezza del loro clima e della loro convivialità. Difronte a questa politica di omologazione di tutti i popoli europei ad un unico modello, la parola d'ordine deve essere "Resistere, resistere, resistere!". Le uniche armi, veramente potenti, a disposizione sono la pigrizia e l'indolenza meridionali. Li sconfiggeremo.

  

domenica 26 agosto 2012

La Febbre dell'Oro in Sicilia

Il sole di mezzogiorno è implacabile sulle nostre teste. Io e la mia fotografa stiamo risalendo la strada provinciale 51, Comitini- Grotte, dove si trova il Museo del patrimonio superficiale delle zolfare. 
Non è stato facile arrivare fin qui. All'uscita di Aragona, sulla statale 189 Agrigento- Palermo, un'indicazione color marrone ci rimanda al Parco delle maccalube e delle zolfare. In paese, una nuova indicazione accenna soltanto al parco delle maccalube. E le zolfare dove sono finite? Dopo aver vagato per la campagna aragonese, per fortuna incontriamo delle persone del posto, che ci dicono di andare a Comitini, a circa 8 chilometri: "Arrivate in piazza: li ci sono il municipio e i vigili urbani, sicuramente ve lo sapranno dire".
Comitini è il centro più piccolo della provincia di Agrigento. Arrivati nella bella piazza, fermiamo la macchina e chiediamo a due vigilesse indicazioni per il parco delle zolfare. Sul momento restano un po' spiazzate, poi una delle due prende l'iniziativa: "Seguite l'indicazione Grotte, superate gli impianti sportivi. Li dovrebbero esserci le vecchie zolfare".
Si, perché la memoria di quella che fu una vera e propria epopea, che segnò, con alterne vicende, la Sicilia per tutto il XIX secolo e sulla quale vennero scritte pagine di grande letteratura, oggi sta scomparendo o, nel migliore dei casi, resta patrimonio di pochi.

La Febbre dell'Oro siciliano ebbe inizio ai primi dell''800, quando, in seguito alle pressioni di Inghilterra e Francia, che avevano bisogno di acido solforico per le loro industrie, i Borbone concessero l'apertura di nuove miniere di zolfo (minerale già conosciuto ed estratto dai romani, duecento secoli prima di Cristo). Da quel momento iniziò una vera e propria corsa all'accaparramento del minerale, giallo come l'oro, e la campagna siciliana venne bucherellata come una groviera. "Non si vedeva che zolfo, da per tutto, in quel paese! Lo zolfo era anche nell'aria che si respirava, e tagliava il respiro, e bruciava gli occhi- scrive Pirandello nella novella "Il Fumo"- Fra vent'anni, quelli che sarebbero venuti dopo di lui, da quel punto dello stradone, avrebbero veduto là un colle calvo, arsiccio, livido, sforacchiato dalle zolfare". Fu il primo, duro, impatto della Sicilia con l'industrializzazione e le zone più interessate da questa trasformazione dell'economia furono l'entroterra nisseno e agrigentino. Nella sola Comitini, a fine '800, si calcola che fossero attive 70 miniere, che davano lavoro a circa 10000 operai; mentre a Cianciana, altro paese dell'agrigentino, che, oggi, conta appena 2000 abitanti, all'epoca di maggior attività delle zolfare la popolazione aveva raggiunto le 20000 unità. 

Siamo nell'800, in piena epoca di pionerismo industriale, e l'attenzione alle condizioni di lavoro nelle miniere è pressoché nulla. E, infatti, i minatori sono costretti a lavorare in condizioni bestiali. La giornata di lavoro va "da suli a suli", cioè dall'alba al tramonto, dentro le miniere si lavora nudi, per combattere, come si può, il calore soffocante. Gli impianti sono fatiscenti, vuoi perché- come ci racconta Guido Piovene nel suo "Viaggio in Italia- "...i concessionari spesso sono gli stessi proprietari del terreno, gente per tradizione dedita all'agricoltura. Non industriali per carattere....avvezzi a scorgere nella miniera solo una fonte di lucro, lasciarono invariati i vecchi impianti e non pensarono a formarsi un mercato stabile...". Vuoi perché i piccoli produttori, strangolati dai proprietari e dalle tasse, non avevano la possibilità di investire nelle infrastrutture. Ancora una volta Pirandello ci viene in aiuto: "Chi erano....i produttori di zolfo? Poveri diavoli, senza il becco d'un quattrino, costretti a procacciarsi i mezzi, per coltivar la zolfara presa in affitto, dai mercanti di zolfo delle marine, che li assoggettavano ad altre usure, ad altre soperchierie. Tirati i conti, che cosa restava, dunque, ai produttori? E come avrebbero potuto dare, essi, un men tristo salario a quei disgraziati che faticavano laggiú, esposti continuamente alla morte? Guerra, dunque, odio, fame, miseria per tutti; per i produttori, per i picconieri, per quei poveri ragazzi oppressi, schiacciati da un carico superiore alle loro forze, su e giú per le gallerie e le scale della buca". Molti di questi industriali dello zolfo andarono in rovina, come lo stesso padre di Pirandello o come il Barone Ignazio Genuardi di Comitini.
Tra i minatori vi era una rigida gerarchia, al cui vertice stava il Capomastro, come il Cacciagallina di "Ciaula scopre la Luna", che dirigeva il lavoro all'interno della miniera, esercitando, spesso, un potere dispotico. Vi erano, poi, i picconieri, che a colpi di piccone estraevano lo zolfo, giù, giù fino a quelle che erano le figure più tragiche del lavoro in miniera, i cosiddetti Carusi, bambini sfruttati e costretti, proprio per le loro piccole dimensioni, a calarsi nelle anguste gallerie, le c.d. discenderìe e a risalirne carichi di minerale, che sarebbe poi andato ai calcheroni per la cottura. "Ciaula, con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte, e schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lubrica scala sotteranea, erta, a scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, col fiato mozzo, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi in un gemito strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole...". Il tutto per un salario da fame: nelle miniere di Cianciana, alla fine dell'800, la paga giornaliera andava da 2 lire per un capomastro, a 35 centesimi per un caruso. Una condizione di sfruttamento che provocò, nel 1892, un'ondata di scioperi che culminò, nel 1893, col congresso minerario di Grotte, fase più alta e matura del movimento operaio e contadino dei Fasci siciliani.

All'inizio del '900, come ci dice sempre Guido Piovene, la Sicilia produceva il 95% dello zolfo mondiale; negli anni '50, solo il 2% scarso. Nel frattempo, aveva fatto irruzione sul mercato lo zolfo degli Stati Uniti, estratto in maggiori quantità e a minor prezzo, grazie all'uso di tecnologie più avanzate. La globalizzazione mise in ginocchio l'economia di un'intera regione e si portò via le tante storie di miseria, sacrifici e morte. A nulla servirono i tentativi del Fascismo prima e dell'Italia repubblicana poi, di risollevare il settore minerario siciliano attraverso politiche protezionistiche. I trattati sul mercato comune europeo chiusero definitivamente un'epoca.  


Di quella tragica epopea rimane poco. Dalla provinciale Comitini- Grotte, superata una barriera di sterpaglie, si vedono i resti solitari dei calcheroni. Proseguendo tra ulivi e rumore di cicale, oltre una piccola galleria di quella che fu la stazione ferroviaria Comitini- Zolfare, dalla quale partivano i treni carichi di minerale per Porto Empedocle, si sale sulla fiancata di una montagna, dove, monumenti di archeologia industriale, affiorano le strutture delle vecchie gallerie, in cui si calavano picconieri e carusi. Nelle gallerie si potrebbe provare a scendere ancora oggi. Non c'è lucchetto che chiuda i cancelli e questi si possono aprire con facilità. Ma il fiato si mozza alla vista dell'oscurità e viene da immaginarsi il terrore provato da quei bambini la prima volta che si calarono in queste tenebre. Tutti da piccoli abbiamo paura del buio.
Bisogna dare atto al Comune di Comitini che un tentativo di celebrare la memoria del passato industriale è stato fatto. Il Museo del patrimonio superficiale delle zolfare è provvisto di pannelli esplicativi. Ma non è colpa dei volenterosi amministratori se a visitare questi luoghi non viene nessuno. Probabilmente, appena venne istituito, il museo era provvisto di un percorso che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto guidare il visitatore  nella scoperta dei luoghi della miniera, dei procedimenti di estrazione e lavorazione del minerale, delle condizioni di lavoro. Oggi, tutto è coperto da sterpaglie, avvolto in un silenzio tombale.
Ritorniamo in paese, lungo la stessa strada che facevano al tramonto i surfatari per ritornare a Comitini. Siamo fradici di sudore e abbiamo bisogno di bere qualcosa di fresco. Il barista ci chiede se siamo turisti, stupito che qualcuno possa essere capitato da queste parti in piena estate, a pochi giorni da ferragosto, invece di andare al mare. Lo stesso punto interrogativo è stampato sulle facce delle gentilissime bibliotecarie di palazzo Bellacera, a cui chiediamo se esista qualche pubblicazione sulla storia delle miniere di Comitini. "Portali a fare un giro del palazzo", dice una delle bibliotecarie all'altra. In effetti è un bellissimo palazzo baronale del XVI secolo, collegato alla Chiesa Madre del 1650, dalla cui balaustra la famiglia dei baroni Bellacera assisteva alle messe, per evitare di mescolarsi col popolino. Al piano superiore del palazzo, è allestita una mostra sulle zolfare, ricca di foto e testimonianze, purtroppo, pochissimo visitata.

Prima di concludere il nostro viaggio, passiamo per la vicina Racalmuto, paese di zolfo. "Ce ne ricorderemo di questo pianeta", sta scritto sulla tomba di Leonardo Sciascia. Ancora un riferimento alla Memoria. Purtroppo, ironico.
http://www.irsap-agrigentum.it/miniera.htm

martedì 14 agosto 2012

Illusioni perdute

La prima cosa che viene in mente, terminata la lettura di questo capolavoro di Balzac, è: "Ma perché di libri così non ne scrivono più?!".
In effetti, le Illusioni perdute, oltre ad essere, tecnicamente, un romanzo di formazione, è l'affresco di un mondo, quello del Potere, che già era marcio all'epoca in cui scriveva Balzac (siamo nella prima metà del XIX secolo) e che, col tempo, non ha fatto altro che peggiorare. 
Le Illusioni perdute è, anche, un grande classico del giornalismo, descritto per quello che è realmente: parte integrante, forse addirittura fondante, di quel sistema di potere corrotto. Il Potere, infatti, teme e blandisce il giornalismo più di ogni altra cosa. Ma non perché questo sia, come retoricamente viene definito, il suo "Cane da guardia". Quanto, piuttosto, perché il giornalismo può fare e disfare, a seconda delle convenienze, carriere politiche, governi, ricchezze. Non è un caso se i grandi potentati economici si assicurano, prima di tutto, la proprietà di grandi giornali.
Tutto questo Balzac lo diceva già nel 1843. Dopo di lui sono arrivati, tra gli altri, Maupassant (Bel Ami), Orson Welles (Citizen Keane), Billy Wilder (L'asso nella manica e Prima Pagina).

Il libro è lungo e inizialmente un po' ostico. Man mano che si va avanti nella lettura, però, diventa appassionante, proprio per la sua straordinaria modernità. Non proprio una lettura da ombrellone, ma uno sforzo che, prima o poi, bisogna fare.



sabato 11 agosto 2012

Tre mesi dopo

Ho aspettato un po' di tempo prima di tornare a Finale Emilia. I trenta chilometri che la separano da Ferrara e che, prima del terremoto, avevo percorso spesso con la mia bicicletta, sembravano diventati cinquanta, cento, mille.
Avevo sofferto nel vedere alla tv la rocca estense sventrata, al pari degli altri edifici storici che costellano la campagna tra Ferrara e Modena. Per pudore me ne ero tenuto lontano, non sopportando i tanti "turisti"che, come sciacalli, dopo appena una settimana dalla scossa del 20 maggio erano andati a raccattare qualche souvenir di dolore altrui.
Alla fine, però, la curiosità del vecchio cronista e la volontà di documentare la situazione dopo un ragionevole lasso di tempo, hanno avuto il sopravvento. Chissà se dopo tre mesi Finale aveva ripreso a vivere. Così, ho preso la bici e di buon mattino son partito. Ho pensato che, a pochi giorni da ferragosto, la città fosse svuotata e la mia presenza potesse passare inosservata.

Ai piedi dell'argine destro del Panaro, a tre chilometri da Bondeno, arrivo a Santa Bianca, un minuscolo paesino con una fontanella d'acqua fresca. Proprio quello che ci vuole col caldo che fa. Su una panchina, due anziani osservano la loro chiesa: il campanile è venuto giù e un paio di crepe sulla facciata fanno pensare che non riaprirà più. La piccola croce piazzata all'ingresso è spezzata e il Cristo tiene le braccia sospese nel vuoto, quasi in segno di resa. Oltre ai poveri operai morti e ai danni al tessuto produttivo della regione, le due scosse del 20 e del 29 maggio scorso hanno colpito i simboli di queste piccole comunità. Questa è una zona di piccoli e piccolissimi centri abitati, raccolti attorno a chiese seicentesche, pievi romaniche e rocche rinascimentali. E' come se la Natura si fosse accanita con ciò che più dà senso alla vita delle persone.

Da Santa Bianca, mancano poco meno di dieci chilometri a Finale Emilia. Un anticipo di quello che mi aspetta è dato da alcuni vecchi fienili di campagna crollati. Alcune famiglie hanno piazzato delle roulotte nei cortili, evidentemente non si fidano ancora di passare la notte nelle loro case.

Arrivo a Finale. Subito mi si presenta alla vista una delle principali chiese del paese, gravemente danneggiata. In un campetto vicino è allestita una grande tenda, dove i fedeli si radunano per seguire la messa. Nel parco col monumento ai caduti, appena prima dello stradone che porta in centro, sono piazzate alcune tende da campeggio. Sono vuote, immagino siano servite da primo ricovero per alcune famiglie nell'immediata emergenza. Adesso sono solo un lugubre annuncio di quello che mi aspetta. 
Il centro storico, la zona rossa, è completamente transennata. La gente passa silenziosa lungo i "vialetti"  della nuova viabilità creata da transenne e nastri bianchi e rossi che segnalano il pericolo. In una via stretta, i vigili del fuoco lavorano issati sopra una gru: evidentemente stanno puntellando un palazzo. Mi avvicino alla Rocca Estense. In lontananza scorgo un mucchio di macerie. La Rocca non c'è più, l'intero perimetro è transennato; un ordinanza del sindaco dell'8 giugno scorso vieta l'accesso. Stesso discorso vale per la torre dell'orologio, diventata il simbolo del disastro. Qualcuno ha affisso alle transenne una commovente preghiera: "Grazie Torre che hai solo sfiorato le nostre case...Ti chiediamo un favore grandissimo. Lasciaci passare e lasciaci lavorare e appena saremo tutti ripartiti e ritornati alle nostre case, faremo di tutto per rimetterti in piedi più forte e più bella di prima. Arrivederci Torre". 




Purtroppo sembra che anche al terremoto dell'Emilia si stia riproponendo il "Modello L'Aquila", dove, a tre anni dal disastro, la zona rossa è ancora in macerie. Come se una superiore volontà burocratica impedisse di far partire i lavori della ricostruzione, favorendo la lenta morte delle comunità. E la situazione è destinata a peggiorare quando arriverà l'inverno. Ma l'Italia del 2012 è alla canna del gas e pare rassegnata ad andare in pezzi, senza avere nemmeno la forza di recuperare intere porzioni di territorio.

Me ne riparto triste e con un po' di vergogna addosso. Mi sembra di aver mancato di rispetto ai finalesi che, chissà, forse perché ormai abituaticisi, non hanno avuto nemmeno la forza di mandare a quel paese quel tizio in tuta da ciclista che si aggirava tra le macerie facendo foto. Chiedo scusa se a qualcuno la mia presenza è parsa una mancanza di rispetto. Non era nelle mie intenzioni. 

venerdì 27 luglio 2012

Londra 2012

La cerimonia d'apertura delle Olimpiadi di Londra 2012 è stata sì noiosa come tutte le cerimonie, ma una delle più ideologiche che io ricordi.
Celebrare la Rivoluzione Industriale è come celebrare un genocidio. Il passaggio dalla società preindustriale a quella industriale è stato ben rappresentato da quegli attori che impersonavano quei capitani d'industria che sorvegliavano i lavoratori addetti alle macchine, affinché facessero fruttare al meglio, col sudore della fronte, i loro capitali. Il freddo interesse borghese che diventa il metro di valutazione di ogni azione. 
Questo hanno voluto ricordarci gli inglesi, col loro solito pragmatismo.

domenica 15 luglio 2012

Mondo Piccolo?



A volte capita, attraversando la campagna del lombardo-veneto, oppure quella emiliana di comuni ad amministrazione leghista, di imbattersi in cartelli stradali coi nomi dei paesi in doppia lingua: italiano e dialetto. 
Non ci vuole molto a capire il motivo di questa singolare doppia dizione: le amministrazioni locali credono, in questo modo, di riaffermare la tradizione, messa in discussione, oggi, dalla presenza, nelle piazze di questi piccoli borghi, di un po' di barbe lunghe, di pelli olivastre e di relativa prole. Quasi che quel dialetto stampato sui cartelli stradali servisse da scudo per impedire una contaminazione irreversibile con queste genti diverse. 
Naturalmente, si tratta solo di un'operazione ideologica di facile presa sui gonzi. Non basta un cartello stradale per recuperare una tradizione che non potrà mai tornare, come non basta per riaffermare un'origine che non esiste più. Quell'Italia del Mondo Piccolo, tanto ben descritta da Giovannino Guareschi, è morta. E non per colpa degli immigrati, che, per lo più, sono trattati da "invisibili", che van bene di giorno quando c'è da lavorare nelle fabbriche o nei campi, ma che devono nascondersi la sera ed esercitare i loro diritti di culto e di riunione (che sarebbero costituzionalmente garantiti) lontano dagli occhi degli autoctoni.
Purtroppo, non c'è cartello che tenga quando si è persa l'anima.

http://www.lavoce.info/articoli/-immigrazione/pagina1003201.html

domenica 24 giugno 2012

Il Delta condannato?

Come si legge nel link che ho postato, il Consiglio di Stato, in seguito ad una modifica operata dalla Regione Veneto delle norme istitutive del Parco del Delta del Po, ha fatto ripartire il progetto di riconversione a carbone della centrale Enel di Porto Tolle. In sostanza, la nuova normativa non richiede più la comparazione tra combustibili diversi, in ragione del loro impatto ambientale.
Una brutta notizia per chi, come le varie associazioni ambientaliste e comitati civici, si oppone al progetto di Enel. Anche questa volta l'interesse della Produzione sembra prevalere su quelli alla Salute Pubblica e alla tutela del Patrimonio Ambientale.
Continueremo a seguire la vicenda. 



Centrale Enel a Porto Tolle Riparte l'iter di riconversione - Corriere del Veneto

Centrale Enel a Porto Tolle Riparte l'iter di riconversione - Corriere del Veneto

mercoledì 25 gennaio 2012

Manhattan





Dice: "New York è il centro del mondo".
Forse lo era fino a qualche anno fa. Oggi, con i cinesi che, comprandosi il debito americano, praticamente si sono comprati l'America, il centro del mondo si è trasferito da qualche altra parte.
Certo, ovunque ti giri a Manhattan vedi spuntare le insegne della Bank of America, della Chase Manhattan Bank o della Citigroup, i grandi colossi della finanza globale. Ma dopo il settembre 2008, con lo shock del clamoroso fallimento della Lehman Brothers, questi giganti sembrano un po' più piccoli e anche il loro prestigio si è incrinato, quando, da icone del liberismo più sfrenato, si sono aggrappati alla tetta dello Stato per accaparrarsi quei finanziamenti pubblici senza i quali pure loro avrebbero portato i libri in tribunale.
Un esempio di come il capitalismo finanziario viva sotto assedio, anche in quella che è la sua capitale, è Wall Street. Il New York Stock Exchange è un fortino circondato da transenne che impediscono ai passanti di avvicinarsi ed è sorvegliato 24 ore su 24 da guardie armate. Evidentemente, le autorità hanno paura che succeda alla Borsa di N.Y. quello che accadde il 16 settembre del 1920, quando un carretto esplose davanti al Morgan Guaranty Trust Building, il palazzo di J.P.Morgan, uccidendo 33 persone e ferendone oltre 100. Il Morgan Building si trova al n.23 di Wall Street; allora, dell'attentato furono accusati gli anarchici (se ne parla anche nel recente film J.Edgar di Clint Eastwood). Poco lontano, un gruppo di individui male in arnese raccoglie qualche spicciolo per il movimento Occupy Wall Street, riunito nel vicino Zuccotti Park.

Camminare lungo il midtown Manhattan dà le vertigini. Si ha l'impressione di essere calati in quell'inferno caotico di acciaio e cemento descritto da Dos Passos in "Manhattan Transfer". Grattacieli altissimi si alzano verso le nuvole, a simboleggiare la potenza di chi li ha fatti erigere: il Rockfeller Center, costruito dal figlio del magnate della Standard Oil; l'Empire State Building, il Chrysler Building, tutti venuti su dopo la Prima Guerra mondiale, in quella che è passata alla storia come l'Età del Jazz, gli anni del Grande Gatsby, delle ricchezze sfacciate da esibire con queste opere faraoniche, prima che la Grande Depressione mettesse fine all'ubriacatura. L'impronta di quell'epoca rimane, del resto gli americani sono il popolo degli eccessi e il kitch di Times Square ne è l'esempio più lampante.

Man mano che si avanza verso il downtown, i palazzi si fanno meno minacciosi, l'acciaio e il cemento vengono sostituiti dalla pietra marrone, tipica di Brooklyn, e dalle facciate di ghisa di Tribeca e Soho. Siamo in una zona apparentemente più popolare. In realtà anche qui gli affitti sono altissimi e, sebbene non ci sia il lusso pacchiano della Quinta strada, è pieno di piccole boutique dai prezzi inarrivabili. Dall'altra parte della strada ci si imbatte in Little Italy, definita dalle guide una "trappola per turisti". In effetti, oggi, il quartiere è praticamente ridotto ad una via che, in settembre, durante la Festa di S.Gennaro, si riempie di bancarelle e di luminarie come in un paese del nostro meridione. Ma ormai Little Italy è stata fagocitata da Chinatown e il grosso degli italo- americani si è trasferito nel Bronx.

La parte, forse, più affascinante di Manhattan è, però, il Greenwich Village, il cui centro è Washington Square. Prima di diventare, oggi, anche questo un quartiere per ricchi, dov'è ambientata la popolare serie Sex and the City, il Village era il centro della vita intellettuale e radicale di New York. Qui in Washington Square, nel 1913, Marcel Duchamp salì in cima all'arco trionfale e proclamò la Libera Repubblica di Greenwich Village; nel salotto di Mabel Dogde passarono alcuni dei più influenti intellettuali radicali americani di inizio secolo, tra cui John Reed, autore de "I dieci giorni che sconvolsero il mondo", resoconto ufficiale della rivoluzione russa.
Oggi al Village si sono trasferite alcune delle ricchissime star hollywoodiane. Può capitare di incrociare, in Bleecker Street, la strada che taglia in due il Village da est ad ovest e che fu cantata da Paul Simon nel suo primo album "Wednesday Morning, 3 A.M.", Harrison Ford che cammina di fretta, forse ancora alla ricerca dell'Arca Perduta.

domenica 22 gennaio 2012

Ellis Island




Ellis Island è un isolotto alla foce del fiume Hudson, nella baia di New York. Fino al 1954 è stata la porta d'ingresso agli Stati Uniti per milioni di immigrati provenienti dall'Europa. Oggi è sede del Museo dell'Immigrazione.
Dopo giorni, settimane di navigazione, chi partiva da un porto dell'Europa, prima di arrivare a mettere piede a New York veniva sbarcato in questo enorme centro di smistamento. Naturalmente, questa prassi riguardava solo i passeggeri di terza classe, perché quelli di prima proseguivano comodamente il loro viaggio fino a Manhattan senza troppi fastidi.
Sbarcati ad Ellis Island, gli aspiranti cittadini statunitensi venivano sottoposti a visite mediche e gli idonei passavano nella grande ed affollatissima Sala dei Registri per essere identificati. Chi superava tutti i controlli, era accompagnato al molo del traghetto per il porto di New York.
Chi non passava i controlli sanitari veniva marchiato col gesso e sottoposto ad ulteriori esami medici e se non risultava idoneo era reimbarcato sul piroscafo che lo aveva portato negli Stati Uniti e rispedito a casa.
Circa dodici milioni di immigrati sono passati per Ellis Island da fine ottocento fino al 1954, tanto che la piccola isola venne via via ampliata con ulteriori isolotti artificiali per ospitare l'enorme ospedale e i dormitori. Dopo la Prima Guerra Mondiale e, soprattutto, durante gli anni della Grande Depressione, gli Stati Uniti introdussero regole più rigide per limitare l'afflusso di immigrati, fino ad adottare il sistema delle quote d'ingresso in base alla nazionalità, un po' come oggi da noi.
Dal 1954 e fino agli anni '80 Ellis Island venne abbandonata e le strutture lasciate andare in malora. Nel 1984 si iniziò l'opera di recupero, con un esborso di oltre 100 milioni di dollari. Il Museo è aperto dal 1990.
L'impressione che si riceve visitando le sale del museo è di grande commozione. Nella prima sala sono ammassati bauli, ceste, valige ed altri modesti bagagli che gli immigrati portavano con sé nel viaggio. Grandi fotografie dell'epoca testimoniano le condizioni di miseria dei viaggiatori di terza classe che sbarcavano ad Ellis Island. Non lontano si vede la Statua della Libertà; appena più in là lo sky line di Manhattan.
Tante le storie di famiglie che arrivavano qui da ogni parte d'Europa: Polonia, Ungheria, Francia, Germania e, naturalmente, Italia. Un viaggio da queste parti farebbe bene ai tanti razzisti di casa nostra, che avranno senz'altro un lontano parente passato di qua.