sabato 20 gennaio 2018

Il volo dei Seagulls

Sono un paio d'anni che frequento Brighton, da quando, ad inizio del 2016, mia moglie Teresa ci si è trasferita per lavoro e, come ogni buon italiano medio che si rispetti, la prima cosa che ho fatto, arrivando nella città dell'East Sussex, è stato visitare lo stadio della locale squadra di calcio, il Brighton and Hove Albion (B.H.A) 

Col passare del tempo ho iniziato ad interessarmi alle vicende della squadra, andando a vedere, quando possibile, anche qualche partita e questo capodanno Teresa e io l'abbiamo festeggiato proprio all'Amex Stadium, dove si giocava Brighton- Bournemouth, uno dei tanti derby del sud dell'Inghilterra che popolano la Premier League. Sì, perché quest'anno, dopo trentaquattro d'attesa, il Brighton è stato promosso nella massima serie inglese che, all'epoca dell'ultima apparizione dei Seagulls, i "Gabbiani" (il soprannome del B.H.A. e se vi farete un giro in città, con quella specie di tacchini volanti che gracchiano ad ogni ora del giorno e della notte capirete il perché...) si chiamava ancora First Division.



Un'esperienza che consiglio ad ogni appassionato è quella di andarsi a vedere una partita di calcio inglese in inverno, meglio se in quel periodo "magico" che va dal Boxing Day del 26 dicembre al terzo turno di Fa Cup a ridosso dell'Epifania. Difficile che possiate imbattervi in una giornata di sole, soprattutto se vi trovate dalle parti del canale della Manica; più probabile che dobbiate affrontare raffiche di vento che sfiorano i 100 Km/h e che vi spruzzano in faccia la pioggia sottile che cade con scoraggiante costanza, ma, dopotutto, se siete seduti sulle comode poltroncine di uno stadio inglese, uno di quei begli stadi dall'atmosfera così avvolgente, non è un problema che vi riguardi. Il problema, semmai, è per quei ventidue disgraziati che devono dannarsi l'anima ad inseguire il pallone che schizza sull'erba viscida del campo come una pallina da flipper impazzita e che per questo se le devono dare di santa ragione. Del resto sono pagati e amati per farlo e credo che, in quel preciso momento, non ci sia altra cosa al mondo che vorrebbero fare.   

E' proprio questo il clima che ci accoglie quando scendiamo alla stazione di Falmer, il sobborgo di Brighton dove si trova l'Amex. Amex è l'acronimo di American Express, la multinazionale dei servizi finanziari che è il main sponsor del club e che rappresenta la principale voce dell'economia della città: praticamente la metà della popolazione attiva di Brighton lavora per l'A.E. 

Fino al 1997 e per oltre novant'anni il B.H.A. ha giocato al Goldstone Ground, nel quartiere di Hove, lo storico stadio dei Seagulls capace di contenere oltre trentamila spettatori. Era uno di quei vecchi stadi all'inglese con le tribune in legno e anche solo guardandolo nelle vecchie foto sembra quasi che ti debbano salire alle narici e penetrare nelle orecchie il tanfo e le grida di quell'umanità incattivita, migliaia di corpi pigiati gli uni contro gli altri, che Nick Hornby descrive così bene in "Febbre a 90'". 

Oggi il Goldstone non esiste più, è stato demolito dopo che il club, a metà anni '90, ha venduto il terreno per evitare la bancarotta. La decisione fu presa dal board del B.H.A. senza consultare i tifosi, legatissimi al loro vecchio stadio, che ci rimasero piuttosto male, tanto da protestare più volte con occupazioni del campo che causarono anche alcuni punti di penalizzazione alla loro squadra, in quello che fu il periodo più basso della storia dei Seagulls, a un passo dalla retrocessione in Conference. 
Per quasi quindici anni il B.H.A. ha peregrinato tra piccoli stadi periferici, giocando per due anni, dal '97 al '99, nello stadio del Gillingham, a oltre settanta km da Brighton, e per dodici al Withdean Stadium, un piccolo campo di atletica alla periferia della città. Fino al 2011, quando terminarono i lavori per il nuovo stadio di Falmer, che con i suoi poco più di trentamila posti a sedere è una casa finalmente adeguata alle attuali ambizioni dei Seagulls (La lotta anche a livello politico dei tifosi del B.H.A. per riavere finalmente un "loro" stadio è descritta nel libro di Paul Hodson e Stephen North, "Wewant Falmer!").

La costruzione del nuovo stadio a Falmer è stata possibile grazie ai soldi dell'attuale presidente e azionista di maggioranza del B.H.A., Tony Bloom. Brightoniano puro sangue e fin da bambino tifoso dei Seagulls, la fortuna di Tony ha un'origine piuttosto bizzarra, anche se non nasconde un segreto indicibile come quella di Jay Gatsby. Bloom è un asso del poker, gioco insegnatogli in tenera età dal nonno, e negli anni dell'università (si è laureato col massimo dei voti in matematica) inizia a mettere le basi della sua ricchezza, accumulando in poco tempo, grazie alle sue vittorie, qualche milione di dollari che investe in un settore in rapida espansione, quello delle scommesse online, diventando ricchissimo. E dato che l'altra sua passione, oltre al gioco d'azzardo, è il calcio ed in particolare il B.H.A. che in quegli anni non se la passa troppo bene, all'inizio del terzo millennio decide di mettere la sua fortuna a disposizione del club, diventandone presidente nel 2009 e contribuendo in maniera decisiva all'ascesa dei Seagulls.
Lungomare di Brighton

Una storia come quella di The Lizard, l'alligatore, soprannome che si è guadagnato Bloom per la sua freddezza al tavolo verde, è forse possibile solo a Brighton, probabilmente la città più libertaria e godereccia d'Inghilterra. Sbagliava Brian Clough, che nell'autunno del 1973 dopo essersene andato dal Derby County allenò per otto mesi il B.H.A. prima dei famosi quarantaquattro giorni al Leeds, a definirla <<un ospizio per vecchi>>. Nonostante quell'aria un po' retrò da stazione balneare d'epoca vittoriana che ancora oggi conserva il suo famoso lungomare, con le sue casette colorate, Brighton è una città vivace e interessante, qualità che gli deriva anche dalla numerosa popolazione studentesca. Pur raggiungendo a fatica i cento cinquantamila abitanti, a Brighton ci sono due università, la più importante delle quali, la Sussex University, sorge proprio difronte all'Amex e non è un caso neppure che qui si trovi la più importante comunità gay d'Inghilterra che, ogni primo fine settimana d'agosto, celebra il coloratissimo Gay Pride. Vagando per le caratteristiche Lanes, poi, si possono trovare piccoli negozi che vendono la merce più disparata. Quello che, personalmente, preferisco è una bottega costantemente presidiata da un gruppo di anziani nel cui sottoscala, raccolti in varie ceste di plastica, si possono trovare i Match program di qualsiasi squadra d'Inghilterra, di qualsiasi epoca. Al modico prezzo di tre sterline puoi portarti via un match program dell'Arsenal del 1951, piuttosto che quello di una partita del Manchester United del 1968, quello di Bobby Charlton, George Best e Denis Law che vinse la Coppa dei Campioni a Wembley contro il Benfica di Eusebio.

Negozio dei match program





Ma torniamo alla nostra partita di capodanno tra Brighton e Bournemouth, invischiate entrambe nella parte bassa della classifica della Premier. Posizione scontata per i Seagulls, guidati in panchina da Chris Houghton, ex bandiera del Tottenham e della nazionale irlandese, che ad inizio stagione erano considerati la squadra più accreditata a scendere in Championship; meno per le Cherries che, dopo la salvezza dell'anno passato e una campagna acquisti parecchio dispendiosa, avevano iniziato il campionato con altre ambizioni. Non sono mai stato a vedere una partita di una delle grandi squadre d'Inghilterra, Chelsea, Arsenal o Manchester United, ma ho l'impressione che difficilmente a Stamford Bridge, piuttosto che all'Emirates o all'Old Trafford, troverei un'atmosfera come quella che trovo ogni volta che entro nel piccolo stadio di Falmer. Quelle più che squadre sono marchi commerciali, con una tifoseria apolide sparsa in ogni angolo del mondo fatta da consumatori di uno spettacolo che potrebbe essere fruito anche dal divano di casa. Qui, invece, si sente che c'è un radicamento con la città e col territorio, lo percepisci sia quando entri nella pancia dello stadio, dove prima dell'inizio della partita si radunano i tifosi del Brighton a bere birra, sia dopo il novantesimo, in fila per prendere il treno per tornare in città, quando, indipendentemente che si vinca o si perda, si intonano cori per ingannare l'attesa. Solitamente non ne mancano mai di piuttosto pesanti contro il Crystal Palace, i rivali più odiati. 

Benchè Brighton e East Croydon distino quasi un'ora di treno, è quella col Crystal Palace la rivalità più sentita dai tifosi dei Seagulls. E' il cosiddetto M23 derby, dall'autostrada che collega Brighton al sud di Londra, una rivalità che si è inasprita ancor di più dopo la semifinale playoff della Championship 2013, quando il Palace eliminò i Seagulls dalla corsa per salire in Premier League. Al termine della partita, vinta 2-0 all'Amex dai londinesi, tornando negli spogliatoi i giocatori del Palace si trovarono, come sorpresa, un grosso "stronzo" sul pavimento al centro della stanza. Non si è mai saputo con esattezza da chi provenisse quel singolare omaggio, anche se alcuni malignano che sia stato l'allora allenatore del B.H.A., Gustavo Poyet.

I giocatori del Brighton esultano dopo il gol dell'1-0 contro il Bournemouth
Contro il Bournemouth il Brighton inizia forte e dopo appena cinque minuti passa in vantaggio con un gol del francese Knockaert, l'ala sinistra, uno dei giocatori più talentuosi dei Seagulls insieme all'altro uomo di fascia, il colombiano Izquierdo, acquistato quest'anno per quindici milioni di sterline dal Bruges. Il migliore in campo per i Seagulls, però, è una vecchia conoscenza del calcio italiano, l'oriundo argentino Ezequiel Schelotto. Non ho mai amato Schelotto, giocatore che per alcuni anni ha goduto, in Italia, di una fama a mio avviso immeritata fino ad arrivare, nel 2013, all'Inter, all'epoca della gestione Mazzarri. Certo, non era un' Inter di gran livello, basti pensare che al centro della difesa giganteggiava, si fa per dire, Campagnaro; comunque Schelotto ci arrivava coi crismi del giocatore di talento, capace di saltare l'uomo sulla fascia e di creare scompiglio nelle difese avversarie. Niente di tutto questo, ovviamente, si avverò e, dopo poche presenze, l'italo argentino fu spedito in giro per l'Italia e per l'Europa e se ne persero le tracce. E', perciò, con mia grande sorpresa che me lo ritrovo in campo in questo anticipo di capodanno della Premier, a sostituire lo spagnolo Bruno Saltor, el Capitàn, l'idolo locale. E sono ancora più sorpreso nel vederlo arare con successo la fascia destra, sia in difesa che in attacco, calato alla perfezione nell'agonismo del calcio inglese, tanto da esaltare i tifosi dei Seagulls. e da essere nominato, al termine della partita, man of the match. 
Un murales dedicato a Bruno Saltor nelle Lanes

Purtroppo, nonostante un grande Schelotto, la partita finisce con un 2-2 beffardo, il Bournemouth pareggia a pochi minuti dalla fine, impedendo alla squadra di Houghton di guadagnare tre punti preziosissimi nella lotta salvezza. Troppi i gol sbagliati dai Seagulls sul 2-1, non c'è dubbio che al B.H.A. serva un bomber di razza per non lasciarsi sfuggire subito quella Premier League inseguita per trentaquattro anni.






domenica 3 novembre 2013

Italia vs Inghilterra

Andare per un periodo, sia pur breve, all'estero fa sempre bene. Prima di tutto, perché si esce dalla cappa di conformismo che grava sulla vita pubblica (e privata) del nostro paese; poi perché, pur nella totale assenza di una classe dirigente (che in Italia è, piuttosto, per dirla alla Sciascia, "classe digerente"), qualcosa di buono da noi, comunque, sopravvive.

Sono stato otto giorni in Inghilterra, precisamente a Birmingham. Ho raggiunto mia moglie, che si trova per un periodo di lavoro alla Medical School della locale università. Mia moglie non è un "cervello in fuga": è solo momentaneamente all'estero, per imparare una nuova tecnica che, poi, dovrà trasporre nel laboratorio dove lavora, al reparto di endocrinologia dell'ospedale di Ferrara. La prima cosa che l'ha sorpresa è come fin da subito l'abbiano messa alla pari del personale che da sempre lavora all'università: il badge di riconoscimento, l'accesso alla mensa e tutte quelle piccole cose che, in Italia, sono precluse ad un assegnista di ricerca precario e, quindi, non sindacalizzato. Inoltre, cosa ancor più sorprendente, il fatto che tra il responsabile del laboratorio e i suoi collaboratori non ci sia quel distacco quasi religioso che le nostrane baronìe universitarie impongono, quasi che il Barone sia un'entità inarrivabile, a metà strada tra il Dio punitore e vendicativo dell'Antico Testamento ed il megadirettoregalattico di fantozziana memoria. Ovvio che lavorare in un ambiente in cui le decisioni sull'organizzazione vengono il più possibile condivise e non imposte, sia più stimolante. E questo vale per qualsiasi ambiente di lavoro. Non può stupire, quindi, che i dati sulla cosiddetta "fuga dei cervelli" dal nostro paese, al netto della retorica che anche su questo argomento è, comunque, tanta, siano così drammatici: un lavoratore specializzato, all'estero ha maggiori possibilità di essere apprezzato e valorizzato per quello che sa fare e di raggiungere, presto, posizioni di responsabilità; laddove in Italia, se non è interno a quella classe digerente di cui sopra, avrà, al massimo la prospettiva di vivere precario per tutta la vita, se non di finire a fare il commesso di supermercato.

Birmingham è una città industriale delle midlands inglesi. Meglio, era: perché dopo il processo di de-industrializzazione avviato in epoca tatcheriana, oggi l'economia locale si basa decisamente sul terziario. La caratteristica principale del paesaggio della periferia cittadina sono le fabbriche abbandonate e i grandi supermercati, panorama diventato ormai familiare anche nelle nostre città. Birmingham non è così squallida com le guide turistiche vorrebbero far credere; anzi, la presenza di tanti canali (c'è chi dice, esagerando, che ce ne siano più che a Venezia) la fa somigliare un po' a Milano e ai suoi navigli, con locali carini frequentati da tanta gente fino a tarda ora.

Un altro esempio della trasformazione economica subita dall'Inghilterra è il porto di Liverpool. Un tempo era il maggior porto d'Inghilterra, secondo solo a quello di Londra; oggi ha seguito l'evoluzione propria di molte aree portuali, come, per esempio, Genova: i docks sono stati trasformati, in gran parte, in centri commerciali o loft di lusso, all'interno dei quali è sorto anche il museo dei Beatles. Sono proprio i Beatles e la scena musicale che si è creata attorno a loro l'attrazione principale di Liverpool: il Cavern Club, il primo locale in cui si esibirono, è rimasto uguale a cinquant'anni fa e si può entrare a visitarlo oppure sedersi a bere una birra, mentre sul palco le band locali si esibiscono fino a notte fonda. 


Bisogna girare queste città "secondarie" per avere un'idea più precisa di cosa sia l'Inghilterra oggi: un paese dove la deregulation degli anni '80 ha trasformato radicalmente l'economia, indebolendo la middle- class produttiva, a favore di una classe sociale arricchitasi oltre misura in seguito alla finanziarizzazione dell'economia e alla sua indiscriminata apertura agli investimenti esteri. Uno "Stato- Pilota" l'Inghilterra, che ha anticipato le politiche economiche ultra liberiste che oggi stanno mettendo in ginocchio le classi medie di mezza Europa. 

Londra non è rappresentativa dell'Inghilterra, come New York non lo è degli Stati Uniti. E' una città stereotipata, che sembra essersi trasformata in modo tale da soddisfare i gusti dei milioni di turisti stranieri che ogni giorno vengono a visitarla da tutto il mondo. Così, alla stazione di King's Cross puoi trovare il binario nove e tre quarti di Harry Potter, con il relativo store (tutto, infatti, è in vendita a Londra).  In questo modo, però, si è venduta l'anima, perdendo qualsiasi carattere proprio.

Una cosa che mi ha colpito, in particolare, dell'Inghilterra, sono le stazioni dei treni. In Italia, dopo le 22, diventano una terra di nessuno dove è poco raccomandabile sostare; in Inghilterra, invece, sono posti vivi e vivaci a tutte le ore del giorno e della notte. Sono vissute in maniera completamente diversa che da noi, non come semplici luoghi di passaggio, ma come spazi d'incontro, dove ci si può fermare in un locale per cena o far la spesa in un supermercato in attesa di prendere il proprio treno, o anche se non si ha un treno da prendere.

Il venerdì sera è sacro per gli inglesi. L'elettricità si sente nell'aria già dal primo pomeriggio. Durante la settimana, chi lavora o studia non si concede distrazioni, a parte, ogni tanto, la partita di coppa al pub il martedì o il mercoledì. Il venerdì sera, però, gli inglesi di tutte le età e classi sociali sono presi come da una frenesia particolare. Mi è capitato di vedere, un venerdì, sul treno da Birmingham a Londra delle 18.30, un gruppo di impiegati scolarsi non meno di sei birre a testa diventando simpaticamente molesti. 

La società inglese mi è sembrata particolarmente repressa, sotto una cappa di divieti e di norme di comportamento: allo stadio, oppure nei locali pubblici, che chiudono alle 23 e smettono di servire cibo alle 21.30 (n.b: se vi trovate in un locale e vedete che, all'improvviso, si accendono tutte le luci, vuol dire che vi dovete rapidamente togliere di torno). E' possibile che questo controllo assoluto e invasivo sulla vita e sul tempo libero delle persone abbia avuto come pretesto la repressione del fenomeno hooligan degli anni '80. Il tifo da stadio, infatti, in quegli anni è stato oggetto di leggi estremamente coercitive, in particolare dopo le stragi dell'Heysel e di Hillsboroug (benché quest'ultima sia stata determinata da una gestione inadeguata dell'ordine pubblico da parte della polizia). Lo stadio era un canale per così dire "istituzionale" in cui incanalare l'aggressività e la violenza. Oggi, invece, gli stadi inglesi sono asettici, tutti i posti sono a sedere e regna un ordine sorprendente (del resto, il primo che si azzarda a fare qualcosa di non consentito o va in galera o non può più mettere piede allo stadio per l'eternità). Ma, compressa in questo modo, la naturale aggressività umana finisce per esplodere in maniera ancor più violenta ed incontrollata (vedi i riots dell'agosto 2011). 

In definitiva, l'Inghilterra è il modello di società e di economia verso il quale siamo destinati ad omologarci. Ma è un particolare impasto, dove accanto alla modernità più spinta, sopravvive un rispetto sacrale e un po' stucchevole della tradizione. Noi le nostre tradizioni le abbiamo rinnegate, conservando solo le peggiori. Eppure, quel po' di estroversione, di indolenza e di calore latini, che sono gli aspetti migliori del nostro carattere, non sono ancora del tutto scomparsi e sono l'unica cosa che ci può ancora permettere di sopravvivere.  

domenica 19 maggio 2013

Il Grande Gatsby

E' uscito in questi giorni il film "Il Grande Gatsby" di Baz Luhrmann con Leonardo di Caprio, adattamento dell'omonimo romanzo di Francis Scott Fitzgerald. Credo sia il terzo film ispirato al romanzo, personalmente avevo visto quello di Jack Clayton con Robert Redford del 1974. Quel film avrebbe voluto girarlo Luchino Visconti, che già aveva acquistato i diritti del romanzo. Ma poi per problemi di produzione non se ne fece nulla. E, quasi come tributo al Maestro italiano, il film di Clayton è girato "alla maniera" di Visconti: sia la fotografia che il ritmo, lento, appaiono riprodurre lo stile di Visconti, sembra come di vedere "Morte a Venezia". 
Il film di Lurmann ha il pregio di essere più originale e vivace, anche se, a volte, un po' troppo gigionesco. Rende sicuramente bene l'atmosfera frenetica dell'Età del Jazz, mentre Di Caprio è, forse, il miglior Gatsby della storia del cinema. Consiglio di andarlo a vedere. Dopo averlo visto, però, chi non lo avesse ancora fatto vada a leggersi il capolavoro di Fitzgerald. Nessun film potrà mai reggere il confronto e potrà mai rendere con la stessa chiarezza il messaggio dello scrittore americano. 
Gatsby è la più riuscita rappresentazione del Sogno Americano dell'elevazione sociale a tutti i costi, anche illeciti. Gatsby, infatti, è figlio di poveri contadini del North Dakota, arricchitosi attraverso il contrabbando durante gli anni della Prima Guerra mondiale e un alone di mistero avvolge la sua leggenda nera. In sostanza è un gangster, ma è ricchissimo, le sue feste a  Long Island sono le più sfarzose e stupefacenti di New York e a nessuno importa dell'origine della sua ricchezza. 
Ma una cosa riscatta Gatsby dalla miseria umana e lo fa sembrare un gigante rispetto al mondo apatico e indifferente dei ricconi che frequentano le sue feste (a cui lui, peraltro, non partecipa): l'amore per Daisy, una ricca e bellissima ereditiera di cui si era innamorato prima di partire per la Guerra. Per elevarsi al suo livello e un giorno sposarla si è arricchito, ha trafficato nel modo più ignobile, forse <<ha ucciso un uomo>>. Solo per Lei ha costruito il suo castello nella baia di fronte alla villa dove Daisy vive col suo squallido marito, Tom Buchanan; solo nella speranza che Lei una sera possa apparire apre il suo castello ai baccanali notturni dell'alta società newyorkese. L'Amore riscatta ogni sua nefandezza e lo rende il solo personaggio positivo del romanzo. Alla fine Gatsby muore, ucciso con un colpo di pistola, per uno scambio di persona, dal marito dell'amante di Tom, e con Gatsby muore il Sogno Americano. Il romanzo si chiude con le parole di Nick, l'Io narrante: «E mentre meditavo sull'antico mondo sconosciuto, pensai allo stupore di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde all'estremità del molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per giungere a questo prato azzurro e il suo sogno doveva essergli sembrato così vicino da non poter più sfuggire. Non sapeva che il sogno era già alle sue spalle, in quella vasta oscurità dietro la città dove i campi oscuri della repubblica si stendevano nella notte. Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C'è sfuggito allora, ma non importa: domani andremo più in fretta, allungheremo di più le braccia ... e una bella mattina... »

domenica 5 maggio 2013

Storie dal Po

 Quando si parla del 1° maggio, come di tutte le feste civili, il rischio che si corre è quello di scivolare nella retorica di maniera. Perciò non c’è niente di meglio, per celebrare il giorno della Festa dei Lavoratori e la memoria di chi è morto per rivendicare il diritto al lavoro, che raccontare un episodio risalente a più di cent’anni fa e che è passato alla storia come “L’eccidio di Ponte Albersano”.
Albersano è una piccola località in comune di Berra, collocata fra l’argine destro del Po e il Canal Bianco, a pochi chilometri da Serravalle, dove comincia il delta. Dall’alto dell’argine si può ammirare a perdita d’occhio la distesa dei campi coltivati. Questa è terra di bonifica, di quella Grande Bonifica Ferrarese che, iniziata in epoca estense, è stata portata a termine con successo nella seconda metà dell’Ottocento, dopo che la Rivoluzione Industriale aveva portato in dote l’utilizzo delle idrovore a vapore. A realizzare quest’opera furono alcune grosse società, come la Banca di Torino, la Lodigiana e la francese Vaudoise, che divennero anche proprietarie dei terreni prosciugati. La sola Lodigiana ne possedeva, nel 1879, quasi tremila ettari. Questi imponenti lavori idraulici avevano richiamato nel basso ferrarese molta manodopera, che, una volta terminata la bonifica, andò ad ingrossare l’esercito dei lavoratori stagionali dell’agricoltura. Inoltre, l’applicazione dei criteri capitalistici nella conduzione delle terre da parte delle grandi imprese “forestiere”, aveva spazzato via il vecchio sistema Patriarcale, basato su usi antichi e su una rapporto tra padrone e colono che riproduceva, appunto, quello tra padre e figlio.
Le condizioni di miseria che si vivevano nelle campagne, la mancanza di lavoro o le paghe da fame quando questo c’era, il susseguirsi di una serie di cattive annate, portarono all’esasperazione il proletariato agricolo, che nel frattempo aveva iniziato ad associarsi in Leghe. Si trattava, per lo più, di leghe che si ispiravano alle nuove teorie socialiste, di quella particolare corrente rappresentata dal sindacalismo rivoluzionario. La prima prova sul campo di questa nuova forma di lotta si ebbe con lo sciopero del 1897, che mobilitò diverse migliaia di lavoratori stagionali, ma l’episodio di gran lunga più importante fu lo sciopero del 1901, che coinvolse circa trentamila lavoratori delle campagne, quasi la metà dell’intera popolazione contadina ferrarese. Lo sciopero era stato proclamato contro la pretesa dei proprietari delle terre (in particolare la Banca di Torino) che non volevano concedere un aumento del salario ai lavoratori nel periodo della mietitura. Per tutta risposta, i dirigenti delle grandi aziende agricole avevano reclutato un gran numero di crumiri, per lo più provenienti dal Piemonte, per portare avanti, comunque, il lavoro e avevano chiesto ed ottenuto dal prefetto di Ferrara la protezione della forza pubblica, nonostante il parere contrario di Giolitti. Uno dei fondi assegnati ai crumiri piemontesi fu la tenuta di Albersano. Quando, il 27 giugno, gli scioperanti, che picchettavano le campagne, videro i piemontesi al lavoro, cercarono di attraversare il ponte che dava sulla tenuta, forzando il blocco dell’esercito, per convincere i crumiri ad unirsi a loro. I soldati, comandati dal tenente De Benedetti, una specie di Bava Beccaris ferrarese, spararono sulla folla, uccidendo sul colpo Calisto Desuò di Villanova Marchesana e Cesira Nicchio di Berra. Altri venti lavoratori rimasero feriti. L’episodio di Albersano ebbe notevole risonanza a livello politico nazionale, in seguito alle proteste dei deputati socialisti, il che indusse gli agrari a concedere gli aumenti retributivi richiesti. Di quegli anni è anche la politica riformatrice giolittiana che va sotto il nome di Legislazione Sociale, la quale, partendo dal riconoscimento delle intollerabili condizioni dei lavoratori, rappresentò il primo, timido tentativo di dare tutela normativa al lavoro.
Come si legge sulla lapide che, oggi, sul ponte di Albersano, ricorda i due braccianti uccisi <<Qui caddero il 27 giugno 1901 Nicchio Cesira e Desuò Calisto per il miglioramento economico e sociale della bassa ferrarese>>. Forse, dopotutto, un po’ di retorica ci sta bene.   

domenica 3 febbraio 2013

Pantani

Ieri sera sono andato a teatro a vedere il "Pantani" messo in scena da Marco Martinelli per il Teatro delle Albe (qui). Bello spettacolo, diviso in due parti: la prima, incentrata sull'ascesa in Paradiso del Campione, dai primi passi col Gruppo Ciclistico Fausto Coppi, al magico 1998, quello dell'accoppiata Giro- Tour; la seconda, invece, sulla sua caduta all'Inferno, dopo il terribile 5 giugno del 1999, quando, prima della tappa di Madonna di Campiglio, fu escluso dal Giro per ematocrito alto.
La storia di Pantani, per me, è una ferita ancora aperta. Non voglio definirmi un suo tifoso: il tifo, di per sé, è qualcosa di dogmatico, che ha a che fare con la fede. L'idolo non si discute, ha sempre ragione, e tutti quelli che lo criticano sono considerati degli infedeli. Diciamolo subito: Pantani non ha mai subito una condanna penale o una squalifica per doping e anche l'episodio di Madonna di Campiglio non è mai stato ben chiarito. Lo stesso giorno, poche ore dopo l'esclusione dal Giro d'Italia, Pantani fece un altro esame in un laboratorio dell'Unione ciclistica internazionale e il suo ematocrito risultò entro i limiti.
Non è, però, la sua vicenda giudiziaria, con i suoi torti e le sue ragioni, che mi interessa oggi, a nove anni dalla sua morte, ma quello che ha rappresentato per me e, credo, per tanti che seguivano le sue imprese. 
Avevo sedici anni quando, nel 1994, il Mortirolo rivelò al mondo questo giovane scalatore, che nel suo modo di stare in bicicletta e di affrontare le corse ricordava il ciclismo degli anni eroici, quello delle strade bianche, delle imprese di Coppi e Bartali, di Gimondi e di Merkx, che avevo solo sentito raccontare. E tutti, immediatamente, ci innamorammo di lui. A costruire il mito di Pantani, contribuì anche la sfortuna, che sempre lo ha perseguitato, come per l'episodio alla Milano-Torino del 1995 o gli incidenti in sequenza che lo costringevano a ritirarsi dal Giro. Fino al 1998, l'anno di grazia, in cui vinse le due corse più importanti e divenne immortale. Sembrava impossibile che, in un ciclismo basato sulla programmazione esasperata, in cui le corse a tappe si vincevano a cronometro, ci fosse ancora spazio per le imprese di uno scalatore capace, con un'azione solitaria, di far saltare il banco. 
Poi ci fu Madonna di Campiglio, il senso di vuoto dovuto alla caduta del Mito, la confusione e la sorpresa. Non riuscivo a capire come fosse possibile che il Grande Pantani, l'idolo della mia adolescenza, potesse scivolare su un controllo così banale, proprio lui che, in quanto simbolo dell'intero ciclismo, avrebbe dovuto essere il più sotto controllo di tutti. Non capivo perché quelli che fino al giorno prima lo chiamavano Pantasogno, ora parlavano di Tradimento. 
Ripensandoci adesso, a quattordici anni da Madonna di Campiglio e a nove dalla sua morte, in quei giorni drammatici, l'unica cosa veramente giusta la disse Aldo Grasso sul Corriere della Sera <<Bisogna che Pantani vada al Tour e lo vinca (qui)>>. Solo così avrebbe potuto zittire chi lo trattava da drogato per l'ematocrito alto. Scontata la sospensione di quindici giorni, avrebbe dovuto cercare il riscatto. La gente dimentica in fretta ed è sempre disposta a salire sul carro del vincitore. Invece, Pantani si chiuse in se stesso e nel suo dramma personale, fino alla morte, nel residence di Rimini.
Per me, Pantani ha rappresentato qualcosa di più di un semplice ciclista. Ha rappresentato il sogno che, in questi tempi mediocri, ci fosse ancora posto, nello sport come nella vita, per il gesto nobile e solitario di chi si eleva dalla Massa e rischia tutto pur di affermare al Mondo: <<Sono qui e sono vivo!>>. A Gianni Mura che un giorno gli chiese <<Perché vai così forte in salita?>>, Pantani rispose: <<Per abbreviare la mia agonia>>. Rievocare la sua storia non è solo un dovere della memoria, ma è anche un esercizio malinconico e struggente, come quando ti guardi indietro e ripensi con rimpianto ai tuoi sogni da ragazzo, morti un giorno a Madonna di Campiglio.


lunedì 3 dicembre 2012

Lacrime di coccodrillo

Ad un anno dall'entrata in vigore della Riforma delle pensioni che porta il nome della ministra Fornero, credo si possa dire che non sia stata compresa appieno la portata drammatica che questa avrà sulla vita delle persone. A parte la questione dei c.d. "esodati", di cui molto si è parlato, il resto della riforma non è stato particolarmente approfondito, altrimenti ci sarebbero state le barricate in piazza e i sindacati avrebbero fatto ricorso, come in passato, all'arma dello sciopero generale. O forse no. Forse siamo stanchi e disillusi, convinti che, alla fine, lor signori ce lo metteranno sempre in quel posto.
Prima del 6 dicembre 2011, data di emanazione del d.l. 201, si poteva andare in pensione in due modi: o con la vecchiaia (65/60 anni di età se uomini o donne e almeno 20 anni di contributi) o con la pensione di anzianità (al perfezionamento di requisiti di età, contributi, più la c.d. "quota", oppure con 40 anni di contributi, indipendentemente dall'età). Una volta perfezionati i requisiti, bisognava attendere la "finestra d'uscita", che il governo Berlusconi, con la legge 122 del 2010, aveva reso "mobile": per avere il pagamento della pensione, bisognava aspettare 12 mesi se si aveva tutta contribuzione da lavoratore dipendente, 18 mesi se da lavoratore autonomo.
La Riforma Fornero ha semplificato le cose, eliminando il sistema delle "finestre", ma inasprendo i requisiti e introducendo una "clausola capestro" che renderà la pensione un miraggio per tanti: l'adeguamento all'incremento della speranza di vita. Due restano i trattamenti pensionistici: la pensione di vecchiaia e la pensione anticipata.
Fermo restando il requisito dei 20 anni di contributi, la prima introduce novità soprattutto per le lavoratrici del settore privato, che vedono allontanarsi l'età della pensione, fino ad eguagliare, a partire dal 2018, il requisito anagrafico già oggi richiesto agli uomini e alle donne del settore pubblico: 66 anni.  Le più colpite sono le donne del 1952, che col vecchio sistema avrebbero maturato il diritto a pensione quest'anno e che, invece, vedono allontanarsi inesorabilmente il traguardo. Forse mosso a compassione, il Governo ha cercato di rimediare introducendo, per questa categoria di lavoratrici, una "clausola eccezionale". In sostanza, le donne che fanno 60 anni entro il 2012 e hanno 20 anni di contributi, potranno andare in pensione a 64 anni, anziché a 66. Ma non tutte: solo quelle che, al 28 dicembre 2011, svolgevano un'attività di lavoro dipendente nel settore privato. Niente da fare per le lavoratrici autonome e niente da fare per quelle che, maturati i 20 anni di contributi, avevano lasciato il lavoro per dedicarsi alla famiglia o a se stesse, in attesa di compiere 60 anni. 
Si ha diritto alla pensione anticipata una volta maturati almeno 41 anni di contributi per le donne e 42 anni per gli uomini (contro i precedenti 40), a prescindere dall'età anagrafica. Chi, però, matura il diritto  e decide di andare in pensione prima dei 62 anni, si vede decurtata la pensione di un 1%, se ha un'età compresa tra 60 e 62 anni; di un 2% se di età inferiore a 60 anni. Questo significa che un Tizio che va in pensione a 58 anni con 4 anni di anticipo rispetto ai 62, vedrebbe la sua pensione decurtata del 6%. Mica male. E questa decurtazione se la porterà dietro per tutta la vita. Anche questo è stato studiato come un incentivo a lavorare di più. Una delle tante astuzie o specchietti per le allodole di cui è disseminata la Riforma, è stata introdotta col decreto Milleproroghe. In questo, si dice che evita la penalizzazione chi va in pensione anticipata entro il 31 dicembre 2017, prima dei 62 anni, a condizione che i contributi derivino da effettiva prestazione lavorativa. Se, invece, nella posizione contributiva ci sono, tra gli altri, periodi di disoccupazione, il beneficio salta. E in un epoca in cui si va sempre più verso la precarizzazione del lavoro, con periodi di occupazione alternati ad altri di disoccupazione, è evidente come si tratti di una norma che avrà ben scarsa applicazione.
Ma il vero grimaldello utilizzato dal legislatore per renderci veri e propri schiavi, è l'introduzione dell'adeguamento all'incremento della speranza di vita. Questo criterio (già in parte portato dal Governo Berlusconi con le leggi 111 e 148 del 2011, ma in maniera più soft) è stato utilizzato come una clava dal Governo Monti e si applica ai requisiti anagrafici di tutti i trattamenti pensionistici (compreso, tra gli altri l'assegno sociale) e ai requisiti contributivi della pensione anticipata. Il primo adeguamento alla speranza di vita (3 mesi) scatterà il 1 gennaio 2013. Questo significa, ad esempio, che un uomo che lavora nel privato andrà in pensione di vecchiaia a 66 anni e 3 mesi; o che una donna andrà in pensione anticipata a 41 e 5 mesi (2 mesi li aveva già gentilmente concessi Berlusconi). Gli adeguamenti avranno cadenza triennale fino al 2019 e diventeranno biennali dal 2021. Un sistema come questo rende praticamente irraggiungibile la pensione e ci condanna a morire sul lavoro.
Particolarmente odioso, poi, è il trattamento riservato agli assicurati dopo il 1 gennaio del 1996, ai quali si applica un sistema contributivo puro. A questi, ai fini del diritto alla pensione di vecchiaia, oltre all'età e ai 20 anni di contributi, si chiede anche un importo della pensione non inferiore a 1,5 volte l'assegno sociale. Per il 2012 l'importo sarebbe di 643,50 euro e, ovviamente, crescerà nei prossimi anni. Una soglia irraggiungibile per tanti che col sistema contributivo si troveranno pensioni da fame.
Una Riforma come questa, che incide a fondo sulla carne viva del Paese, è stata fatta sotto la scure dello spread, per rassicurare i mercati. Ed è piuttosto discutibile che per rassicurare un'entità astratta come i mercati, si vada a rovinare in questo modo la vita delle persone. Ed è stata fatta in fretta e furia, senza calcolare bene le conseguenze. Il balletto di numeri sugli "esodati" (prima 65 mila, poi 120 mila, poi 390 mila e poi chissà) al riguardo è eloquente.
La ratio che ha guidato il legislatore è stata perseguire il massimo risparmio sulla spesa previdenziale, scaricando sulle imprese il costo di lavoratori vecchi e improduttivi. Si sa, infatti, che il lavoratore anziano produce meno, perché meno motivato, e costa di più alle aziende, che fino ad oggi usavano la leva degli ammortizzatori sociali (in particolare la cassa integrazione e la mobilità) per accompagnarne l'uscita pensionistica. Oggi, con la riforma degli ammortizzatori sociali che partirà dal 2013, la mobilità andrà scomparendo e saranno sempre più difficili gli incentivi all'esodo per i lavoratori, visto che la prospettiva della pensione si allontanerà sempre di più.  
E' uno scenario nuovo e imprevedibile quello che si apre. L'unica cosa certa è che bisognerà trovare il modo di reinventarsi la propria vita. Pensare di dover lavorare fino a settant'anni e oltre è impossibile, c'è da impazzire.